I volontari del coronavirus che lavorano per aiutare il prossimo

Si chiamano Stefano, Rebecca, Davide, Anna, Eugenio e Giulia, Angela, Roberto, Simone e Luigi. E ancora Francesco, come il santo protettore di Italia, e Rita, come la protettrice delle cause perse. Che poi, alla lunga, si vincono.
Hanno il volto coperto da una mascherina, ma sotto nascondono un sorriso a trentadue denti. Si capisce dallo sguardo. Da quegli occhi che brillano, di una luce abbagliante come capita quando si fa qualcosa a cui si tiene. E si intuisce dal tono della voce, gentile anche dopo quattro piani di scale e buste stracariche di alimenti. Sono lavoratori in cassa integrazione, per lo più operai, studenti o insegnanti orfani di scuola. Portano la spesa o i farmaci direttamente al domicilio delle persone più fragili. Anziane, malate, sole o, semplicemente, donne a casa con bimbi piccoli e, quindi, impossibilitate a svolgere gli spostamenti cosiddetti indifferibili.

Questa intervista sembra anonima, ma invece è collettiva. Raccoglie alcune delle storie dei tanti volontari, che un po’ in tutta Italia, suonano al citofono e, seppur con le debite distanze, vengono accolti come fossero gli amici più attesi. Cavalieri mascherati senza macchia e senza peccato. A volte le risposte alle domande che seguono sono state ricevute davvero. Altre riportate da terzi. Altre ancora immaginate e un po’ romanzate perché quando la porta si chiude alle spalle degli angeli della spesa vien da chiedersi com’era la loro vita prima. Prima del Covid.

Quando ha deciso di dare disponibilità come volontario?

Eugenio: «Subito, appena scoppiata l’emergenza. Facevo già parte di un circolo operaio che aveva come obiettivo quello di costruire un mondo migliore. Ci ispiriamo al Soccorso Rosso Internazionale degli anni Venti».
Rita: «Chi era già solo prima ora lo è molto di più. E ha paura. All’anziano senza reti basta essere intrattenuto al telefono. L’associazione di cui faccio parte gestisce decine di telefonate di questo tipo e cercare di soddisfare le richieste è venuto in automatico».
Davide: «Il volontariato fa molto bene anche a chi lo fa: una mattina, per esempio, un uomo con problemi di deambulazione ha chiamato perché gli mancavano i guanti usa e getta. Quando glieli ho portati si è commosso; mai avrebbe pensato che ci saremmo precipitati da lui per così poco. »

Cosa faceva prima del Coronavirus?

Rebecca: «Quello che faccio anche ora. Sono una studentessa universitaria. Ho finito gli esami e sto preparando la tesi. Sono giovane e posso aiutare chi ha bisogno di una mano».
Stefano: «Sono un operaio metalmeccanico che alterna periodi di cassa integrazione ad altri in smart working. Sono nato nel giorno del compleanno di Lenin, un motivo ci sarà».
Francesco: «Sono un insegnante. Adesso svolgo una quindicina di ore di didattica a distanza alla settimana. E quando non sono impegnato col lavoro o la famiglia – ho due figli anche loro alle prese con studio e lezioni in videoconferenza – provo ad essere utile».

Chi sono le persone che vi chiedono aiuto?

Roberto: «Soprattutto anziani soli. Chiedono sostegno per la spesa o per l’acquisto di farmaci. Abbiamo accordi sia con i supermercati sia con farmacie ed ospedali».
Giulia: «Ci sono realtà che danno aiuto solo a persone con malattie certificate o ad anziani non autosufficienti. La mia associazione ha scelto di aiutare chiunque, anche i cosiddetti “terrorizzati”, quelli che hanno paura di mettere il naso fuori di casa».
Anna: «C’è una categoria a cui nessuno pensa: quella delle ragazze madri o delle donne a casa da sole con bimbi piccoli. Sono persone non a rischio direttamente, ma desiderose di difendere i propri figli e di evitar loro luoghi affollati come possono essere i supermercati. Queste donne vanno aiutate».

Cosa le ha insegnato questa esperienza come volontario?

Luigi: «Che il nostro servizio di volontariato è bene prosegua anche finita l’emergenza. Ci sono persone che erano sole prima e che lo rimarranno anche dopo».
Simone: «Ci sono anche persone che per orgoglio non chiedono aiuto, ma che devono essere aiutate. Come gli immunodepressi in buone condizioni di salute e che fino a ieri svolgevano una vita pressoché normale. Ora sono più a rischio degli altri».
Angela: «Quando tutto sarà finito non ci dovremmo dimenticare di questo periodo. Dovremo, piuttosto, imparare da esso per modificare o migliorare quello che già non funzionava e che, invece, ci rifiutavamo di vedere».