Architettura a servizio del sociale: Verso e il social design

Sottrarre l’architettura alla tecnica e restituirla alle persone, in altre parole Social Design: questa è la missione di VERSO, un collettivo di architetti nato all’interno dell’Università di Ferrara che oggi gestisce progetti di collaborazione nazionali e internazionali.

Abbiamo intervistato Paola Caselli, lead architect del collettivo, per accenderci la mente.

Com’è nata l’idea di VERSO e perché avete scelto questo nome?

VERSO nasce nel 2015 al Dipartimento di Architettura di Ferrara. Un piccolo gruppo di studenti e studentesse sentiva la necessità di affrontare alcune tematiche di crescente interesse, come quella della progettazione e della pianificazione in territori fragili, contraddittori e in forte sviluppo urbano come i “Paesi del Sud Globale”. Il primo nome dell’associazione era infatti “Universud” (Università verso il Sud), ma capimmo presto l’incompiutezza di un approccio unidirezionale e troppo simile all’assistenzialismo.

VERSO è quindi diventato un collettivo che guarda allo spazio in divenire, ai territori e allo sviluppo urbano nel suo complesso. È un collettivo cosciente che l’architettura non possa essere limitata a un canone, un luogo, una direzione, ma mille e nessuna direzione.

VERSO indica che il processo di progettazione e pianificazione è mutevole, cambia e si costruisce nel tempo.

Che verso sta prendendo l’architettura?

In un mondo dove i rapidi mutamenti generano problemi complessi e dove economia, ambiente e società si intrecciano in relazioni variabili, l’Architettura tende spesso a rispondere a problemi specifici.

Il ruolo dell’Architetto è limitato nella maggior parte dei casi alla sfera tecnica ed estetica, negando la sua capacità di intervenire strutturalmente, contestare alcuni problemi essenziali di come pensiamo la nostra società e proporre modelli alternativi. Ad esempio, riguardo al tema della crisi climatica e ambientale, il dibattito è concentrato sulla sostenibilità tecnica di determinate soluzioni progettuali e quasi mai sulla sostenibilità etica di certe scelte.Per ragionare nel complesso, questo non significa che la tecnica sia la risposta sbagliata, ma che non può essere la sola o la più efficiente per nessun problema delle nostre città e della nostra società.

Per questo, l’architetto non può avere un ruolo di mero progettista di uno spazio; l’architetto deve avere anche un ruolo politico (che non significa partitico) nella trasformazione della città, ovvero essere estremamente legato alla società e alle sue necessità fin dal principio del processo progettuale.

Che cos’è il social design?

Quando si parla di Social Design, innanzitutto è bene cogliere separatamente il significato dei due termini: social e design.

Design indica un intero processo, dall’ideazione allo sviluppo fino alla realizzazione, non esclusivamente il risultato concreto del processo stesso (che esso sia un oggetto, un edificio o un piano urbanistico).

Social è come noi intendiamo questo processo. Vuol dire riconoscere che le persone possono avere un ruolo attivo nello sviluppo di un’idea, che possono collaborare per migliorare uno stato delle cose.

Il Social Design è dunque il prodotto di un processo partecipativo e coinvolgente (non solo passivamente presenziale) indipendentemente dal luogo nel quale viene realizzato o dagli architetti, urbanisti e amministratori che lo coordinano.

Quali sono i progetti che hanno trasformato VERSO in una realtà che opera a livello internazionale?

La sfera internazionale ha accompagnato VERSO fin dagli inizi della sua formazione. I soci fondatori si accomunano anche per aver intrapreso percorsi verso territori geograficamente e socialmente lontani dalla nostra abituale società italiana sia nel corso della propria formazione universitaria che nelle scelte di vita privata.

Nel concreto, VERSO ha avuto l’opportunità di lavorare in territori internazionali nelle estati del 2018 e del 2019, in Benin. Ciò è stato possibile grazie alla collaborazione con la ONG beninese “La Maison de la Joie”, organizzazione con la quale abbiamo realizzato il nostro primo progetto per un’area giochi in un orfanotrofio della città.

Lavorare in territori internazionali è generalmente usato come medaglia al merito, alle capacità e all’intraprendenza. Tuttavia, spesso non si considera l’opportunità e l’incidenza che possono avere progetti legati al proprio territorio per la comunità locale e per il monitoraggio dell’intero processo nel tempo.

Ci racconti del progetto “lessici inclusivi”?

Nato nel 2019, Lessici Inclusivi si rivolge principalmente al mondo della grafica e della rappresentazione. All’interno di un ampio database liberamente scaricabile on line, il progetto raccoglie circa 300 immagini ritagliate (cut-out) generalmente utilizzate da studenti e liberi professionisti all’interno di fotoinserimenti e render.

La particolarità e forza di questo progetto non sta nella raccolta di immagini di per sé, attività tra l’altro piuttosto diffusa da anni, ma dalla scelta delle immagini messe a disposizione. Questo vuol dire che Lessici Inclusivi dà la possibilità a chi si occupa di trasmissione e traduzione grafica di rappresentare una realtà più complessa rispetto a quella normalmente descritta. Nel database, quindi, si possono trovare immagini di anziani, persone disabili, donne e uomini grassi e magri, persone di diverse etnie e status sociali, contenuti solitamente irreperibili online per questo genere di progetti.

L’obiettivo di Lessici Inclusivi, ad ogni modo, non è una critica ad uno specifico canone di normalità, ma una contestazione dell’idea stessa di un unico modello come legittima rappresentazione del reale. Vogliamo abilitare un’immagine di città realmente plurale e di tutti, in cui ciascuno venga considerato come soggetto legittimo, degno di comparire, di esistere e di occupare spazio.