Alberto Puliafito: fondatore del movimento italiano dello slow journalism

In un mondo di notizie “usa e getta”, c’è chi ha deciso di fare un uso più consapevole e responsabile delle informazioni. Più lento, ma più approfondito, che va a far luce là dove le instant news non arrivano. È lo slow journalism e a parlarcene oggi è Alberto Puliafito, fondatore del primo progetto di slow journalism italiano e scrittore, insieme a Daniele Nalbone, di un libro su quest’argomento.

Alberto, in che senso quello che fai è “slow journalism”?

La risposta più semplice a questa domanda è: mi prendo il tempo che ci vuole per fare le cose, perché è l’unico modo sensato per farle. L’unico modo sostenibile, non solo in senso economico ma proprio per la mia vita (lavorativa e non).

Ma se vuoi posso darti anche una risposta molto più articolata.

Sono stato il direttore di un grosso giornale digitale italiano, fino al 2016. La produzione dei contenuti era soverchiante (parliamo di centinaia di pezzi al giorno), la paga ad articolo sempre più bassa, il modello di business legato alla caccia al click. Proprio in quel periodo ho cominciato a soffrire di ipertensione, probabilmente a causa dello stress. Ho confrontato la mia esperienza con quella di altre colleghe e di altri colleghi, ho scoperto che non ero l’unico a soffrire per la sovrapproduzione frenetica di qualcosa che non si poteva nemmeno più definire giornalismo. Perché le conseguenze non si vedevano solamente sulla nostra vita lavorativa, ma anche su quel che facevamo: se vai veloce e non hai tempo, sbagli, non verifichi, scrivi in maniera sciatta, non fai quel che dev’essere davvero il giornalismo. Non fai servizio alla comunità, non contribuisci a creare cittadine e cittadini più consapevoli.

Così mi sono messo a cercare alternative.

Mi sono imbattuto all’inizio in un saggio di Rolf Dobelli che faceva un parallelismo fra cibo e notizie, per la precisione fra il consumo dello zucchero per il corpo e quello delle news per il cervello. Allora ho pensato allo slow food, poi a slow news. Ho cercato su Google e ho scoperto che esisteva un libro intitolato “Slow News – Manifesto per un consumo critico dell’informazione”. Ho scritto al suo autore, uno straordinario professore di giornalismo dell’Oregon, Peter Laufer. Mi ha risposto poco tempo dopo, abbiamo iniziato a scriverci e da lì è iniziato tutto: ho fondato Slow News, una testata giornalistica, e ho girato un film documentario con il medesimo titolo per raccontare redazioni che, nel mondo occidentale, praticano questo tipo di giornalismo.

E poi ho cominciato a cesellare la definizione di slow journalism con i miei soci, a descriverne le caratteristiche, che non sono soltanto relative alla velocità ma che rappresentano proprio un modo di concepire la vita (anche lavorativa, ma non solo), la relazionalità, il ruolo del giornalismo nella società. Tant’è che abbiamo un nostro manifesto e un pezzo in aggiornamento progressivo che cresce al crescere di quel che impariamo facendo lo slow journalism.

Questa forma di giornalismo era già presente prima dei social network o è nata come loro risposta?

Si è sempre fatto buon giornalismo, insieme al cattivo giornalismo. Esattamente come si è sempre cucinato bene anche quando è arrivato il cibo-spazzatura. Detto questo, da un lato è vero che tutte le realtà nel mondo che si approcciano allo slow journalism nascono prima di tutto per reazione allo status quo, per insofferenza al ciclo ininterrotto delle breaking news, alla velocità che porta per forza con sé approssimazione.

Dall’altro però è proprio un modo nuovo di approcciare la professione e il suo output. Non ci interessa tanto la quantità di contenuti che produciamo quanto la qualità, l’impatto che hanno, la relazione con le persone che ci leggono e ci sostengono (sì, perché un’altra delle proposte di valore del giornalismo slow è una separazione netta fra pubblicità e contenuto giornalistico. Gli unici stakeholder del nostro giornalismo sono le persone che ci sostengono economicamente).

Con l’epidemia è entrata nel nostro vocabolario la parola “infodemia”, ovvero la circolazione di una quantità eccessiva di informazioni, spesso non accurate, che destabilizzano chi ne viene “circondato”. Come possiamo curarla?

È una domanda difficile.

Di sicuro non si cura producendo ancora di più. Non si cura polarizzando la conversazione. Non si cura riportando dichiarazioni, generando ansia o minimizzando, riempiendo l’infosfera di opinioni che scadono dopo pochi giorni o dopo poche ore.
Quel che proviamo a fare noi è lavorare sul concetto di quelli che io chiamo i contenuti-anticorpo.

Per esempio, adesso stiamo lavorando a un progetto che si chiama “Covid-19: Una nuova inquadratura”. La sfida è quella di mostrare che si può parlare dell’emergenza sanitaria in modo completamente diverso. Abbiamo organizzato workshop per capire meglio i dati in sanità. Un workshop specifico per fare un giornalismo in emergenza a servizio delle persone. Stiamo lavorando su due documenti condivisi in cui chiunque può dare il proprio contributo (il primo documento si intitola Una nuova inquadratura e serve per produrre contenuti che poi vengono veicolati tramite i social. Il secondo si intitola Emergenza: idee per un giornalismo al tuo servizio).
L’idea di fondo è il fatto che si possano produrre contenuti resistenti nel tempo, da manutenere, che ci aiutino a costruire una consapevolezza migliore del mondo che ci circonda, invece di produrre centinaia di contenuti il cui valore si azzera dopo pochissimo tempo.

Slow Journalism il libro

Il fatto che hai bandito la parola “utente” dal tuo vocabolario (o, almeno, dal tuo libro) c’entra con lo slow journalism?

Non ci avevo mai pensato, ma la risposta è assolutamente sì!
Il libro di cui parli è un manuale di gestione dei contenuti digitali. Mentre ne scrivevo la seconda edizione mi sono reso conto che quella parola, “utente”, era una delle cose che mi infastidiva di più rileggendomi. In effetti è uno dei termini che mi infastidisce di più quando si parla di persone che abitano un determinato ecosistema digitale. Perché ha un significato passivo, si riferisce a una persona che usa qualcosa che le viene erogato: utenti del telefono e della televisione. Quando si parla di utenti ci si dimentica che sono persone che fanno cose. Lettrici? Spettatori? Member? Clienti? Ci sono parole molto più accurate per descrivere i rapporti che si generano nelle piattaforme digitali, che poi non sono altro che la vita fisica aumentata e potenziata. Se le usiamo, ci ricordiamo che il punto cruciale di quel che facciamo nella nostra vita sono le relazioni con le persone. Ed ecco che diventa un concetto perfetto per lo slow journalism. Quando scrivo o faccio l’editore di una storia di slow journalism penso alle persone per cui scrivo, cerco i loro pareri e commenti, se desiderano darmeli, cerco correzioni, aiuti, feedback. È tutto il contrario di un rapporto passivo. Non sono il giornalista che ti dice cos’è meglio per te dal suo pulpito di narratore onniscente. Cerco di essere una persona fra pari, riconoscendo alle altre persone competenze, esperienza, conoscenze che io non ho e non voglio fingere di avere.

In quali altri campi della vita potremmo applicare i principi dello slow journalism?

Be’, vediamo. I principi che cerchiamo di applicare sono: il rispetto del tempo (il tuo, il mio, quello delle altre persone), del lavoro, delle persone stesse (anche di noi stessi, per cominciare); la varietà; la nonviolenza (anche verbale); la costruzione collaborativa di posti (reali o virtuali) dove stare bene; l’inclusività; le regole non come dogmi ma come bussole per orientarsi; la resilienza (parola abusata ma importantissima); la spinta, attraverso la condivisione dell’informazione, verso un mondo più equo e meno diseguale; la creazione di consapevolezza; l’idea che la crescita non sia uno stato che si raggiunge ma un percorso che deve prima di tutto essere sostenibile.
Direi che si possono adottare tutti, in tutti i campi della vita.