Nicola Palmarini autore del libro Immortali

Chiudi gli occhi e immagina una persona over 60. È sedentaria o attiva? Usa la tecnologia o è ferma alla macchina da scrivere? Le sue giornate sono piene o vuote?

Nicola Palmarini, Direttore dello UK National Innovation Centre for Ageing, ci spiega come l’energia umana non sia sempre questione d’età.

Intervista a Nicola Palmarini, autore del libro “Immortali”.

Professor Palmarini, è ancora corretto chiamarla “terza età”, nonostante nel corso degli anni la nostra soglia dell’anzianità si sia spostata?

È una classificazione obsoleta figlia di un retaggio basato sia su una mancata osservazione della realtà e della rivoluzione demografica che stiamo vivendo, sia di una reiterata stereotipizzazione degli anziani e della vecchiaia. Sono dimensioni che si compenetrano e alimentano e che ci impediscono ancora di capire come gli individui che abbiamo attorno a noi non siano una omogenea e uniforme “terza età” rinchiusa dentro ai confini del concetto di pensione, bensì persone nel corso di una moltitudine di fasi di vita.

Abbiamo completamente perso la dimensione dell’individualità, della diversità, dell’unicità. L’hanno persa la politica, i responsabili marketing e comunicazione, chi si occupa di innovazione. Negli ultimi cinquant’anni ogni decade abbiamo guadagnato circa 2 anni di vita, e questi anni aggiuntivi sono progressivamente sempre più “anni in salute” grazie alla ricerca e alla nostra crescente consapevolezza (e aggiungerei al desiderio) di cosa ci può far star bene. E dunque, spostando in avanti la forbice della nostra aspettativa di vita, come possiamo immaginare che esista una unica dimensione là davanti a noi? Vorremo davvero vivere in salute e in forza, parcheggiati da qualche parte? Forse ad aspettare di morire solo perché qualcuno ci ha classificato “terza età”? L’economia della longevità si riferisce a questo, a una serie di industrie in grado di ingaggiare – attraverso prodotti, servizi e modelli di business – individui con desideri, aspettative, visioni, necessità per nulla diverse da quelli con venti o trenta anni o quaranta anni di meno. E soprattutto, con due disponibilità in tasca: tempo e denaro.

Nel suo libro “Immortali” afferma che la vita non è solo lunga, ma anche larga. Cosa intende?

In questi giorni, sfogliando i grafici delle drammatiche statistiche sulla proiezione del COVID-19, ci si imbatte in un viaggio attraverso queste linee sterili che, giorno dopo giorno, raccontano la storia della vita lungo l’asse del tempo e della crescita, dove il contagio e la morte sono muti, ma rumorosi vettori. La linea della vita è sempre rappresentata come sottile, oppure assume altre forme geometriche fatte di linee altrettanto sottili. Quella linea in sé non significa nulla. Sono i parametri che tracciamo sull’ascissa e sull’ordinata che le danno significato. Eliminateli ed è solo una semplice linea: nuda, vuota, solitaria. È così che abbiamo sempre rappresentato la “vita” su un grafico: una linea sottile. Ma quanto è larga? Cosa contiene realmente nelle sue sfumature di colore quando la disegniamo su un foglio di carta, o nei pixel che sfarfallano sullo schermo di un computer? Quanto sarebbe larga quella linea se potesse raccontare la storia della nostra vita quotidiana con la sua voce? Le storie dei morti che oggi tristemente contiamo? La vita è ampia, la vita è larga. Ogni secondo contiene un universo che nemmeno la routine più rigorosa può cancellare. La vita è altrettanto vasta e vale la pena di comprenderne la larghezza mentre la viviamo nella sua lunghezza. 

“L’energia non si crea e non si distrugge, ma si trasforma”. Possiamo pensare che lo stesso principio che applichiamo alla termodinamica valga anche per gli esseri umani?

Credo proprio di sì. Tom Kirkwood ha splendidamente ridefinito il processo di invecchiamento, che fino a qualche tempo fa era stato considerato come una sorta di macigno immutabile. Si nasce, si invecchia, si muore. Kirkwood ha introdotto questa idea secondo la quale, invece, l’invecchiamento è processo “malleabile”, non fissato in una sorta di forma intoccabile. L’aggettivo malleabile implica che un materiale possa essere deformato permanentemente senza subire né modifiche strutturali, che sia modellabile, plasmabile. Implica, quindi, l’azione che ad esempio uno scultore compie con un blocco di marmo. Questa similitudine ci aiuta a immaginare come si possa prendere quella pietra chiamata “vita” e trasformarla in qualcosa di completamente diverso, cambiandone la forma e trasformandola, forse, in un’opera d’arte. Di certo la nostra stessa opera d’arte, e siamo noi gli artisti in questo processo. Questa idea di malleabilità ci aiuta davvero a capire come si possa essere artisti della nostra stessa vita e trasformarla di conseguenza.

Che cosa studia nel suo centro a Newcastle Upon Tyne?

Siamo una organizzazione nata da un investimento iniziale del Governo britannico e dell’Università di Newcastle per contribuire allo sviluppo congiunto e alla commercializzazione di prodotti, servizi e modelli di business dedicati a creare un mondo in cui tutti possano vivere meglio, più a lungo.

Il centro riunisce professionisti e ricercatori provenienti da ambiti e discipline diverse, esperti di marketing, scienziati, innovatori e tecnologi che lavorano a stretto contatto con il pubblico, scambiando intelligenze, competenze e background. Il centro incorpora VOICE (Valuing Our Intellectual Capital & Experience), il nostro “motore” di ingaggio della comunità, una rete internazionale di migliaia di “cittadini pronti all’innovazione”. Attraverso il loro coinvolgimento ispiriamo nuove idee, costruiamo connessioni e diamo potere alle persone.

Al Centro abbiamo sviluppato un nuovo approccio – chiamato Ageing Intelligence® – che mette a fattor comune l’esperienza, le capacità e le competenze degli anziani e delle loro cerchie di riferimento formali e informali, i processi di innovazione, Il nostro ruolo di osservatorio globale e i dati per generare, infine, nuovi insight. Questo è il nostro modo di fare co-design: siamo convinti che sia questo il modo per rompere quel tetto di cristallo rappresentato dagli stereotipi e fornire alle organizzazioni e ai nostri clienti una dimensione capace di catturare le opportunità di business e di ritorno sulla società offerte dalla longevity economy.

Lei è tra i primi italiani a portare nel pubblico dibattito l’ageismo. Che cos’è?

La parola “ageism” è stata coniata nel ‘68 da uno psichiatra americano di nome Butler e definisce la discriminazione e la stereotipizzazione verso le persone a causa della loro età. Una delle discriminazioni inconsce più subdole con cui abbiamo a che fare. Perché se il grande coinvolgimento sociale sulle discriminazioni della nostra era come il razzismo o il sessismo ci ha insegnato – se non ancora a sconfiggerle – almeno a capirne i confini e a riconoscerle, lo stesso non si può dire dell’ageismo. Oggi è ancora una discriminazione di cui si dibatte prevalentemente nei consessi accademici e il fatto che, in Italiano, non esista una parola più precisa per definirla, se non un semplice adattamento dall’inglese, ce la dice lunga. L’ageismo è una discriminazione di cui nessuno ha ancora capito davvero la magnitudine. Anzitutto include tutti gli esseri umani, di qualsiasi razza, sesso, religione, orientamento sessuale, magri o grassi, alti o bassi, di qualsiasi nazionalità o lingua. L’età è l’unica dimensione che non viene quasi mai considerata espressamente dalle costituzioni. Non la prevede l’articolo 3 della Costituzione della Repubblica Italiana e tantomeno la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del ‘48. Il 77% degli americani con più di sessant’anni ha denunciato di aver subito una discriminazione di qualche forma legata alla propria età1.

Una ricerca in un database di oltre 400 milioni di parole dal 1810 al 2009 ha dimostrato come in 200 anni i termini vecchio, anziano e vecchiaia e tutti gli stereotipi legati all’età abbiano progressivamente assunto una accezione sempre più negativa2.

L’ageismo è dappertutto nelle forme più subdole e inconsce, ha effetti devastanti sulla psiche e sulla salute delle persone ed emerge costantemente nella nostra sfera sociale: nessuno ha avuto dubbi, nella prima fase della pandemia, a classificare automaticamente i vecchi come vulnerabili e poi spendibili. Se mai avessimo avuto bisogno dello stato dell’ageismo, non solo in Italia, ma nell’intero pianeta abbiamo avuto la controprova forse più cruda e drammatica che potessimo mai aspettarci.

 

Fonti

  1. Ng, Allore, Trentalange, Monin and Levy 2015
  2. Ibid.